
"E tutt'a un tratto, dall'interno e dall'esterno è scaturita la forza innominabile, l'amore che sostiene la materia. La mia cima si è aperta, e così pure le mie fondamenta. Le energie del Cielo e della materia, unendosi, mi hanno percorsa come un uragano. Ho conosciuto il fuoco del centro della Terra, la luce del centro dell'Universo. Ho ricevuto il fulcro universale, vibrante, ho smesso di essere torre: sono diventata canale." [Alejandro Jodorowsky, Marianne Costa "La via dei Tarocchi", Feltrinelli 2005 ]
Parte Prima.
Una sintetica luce al neon impasta le pareti di questo ascensore, stretto come un virginale orefizio: continua a saltare e frizzare. Una griglia di metallo a quadratini fissata al soffitto con dei ganci, pende sulla mia testa come una spada di Damocle: bottoni neri e circolari con numeri bianchi cancellati nel tempo da migliaia di mani sudaticce. Un silenzio denso ed assoluto, quasi vischioso, si è incollato a me da quando le porte si sono richiuse alle mie spalle: «L'ho annunciata! Camera seizerotre signorina! Terzo piano!» ha detto in reception il ragazzo vestito di verde dopo avere posato la cornetta.
Seizerotre, ripeto a mente intervallando cifre al mio riflesso nello specchio.
Primo piano.
Anestetizzata nei sensi, cerco di non sentire nulla: qui dentro l'aria è fatta di una matericità pervasiva. Gocce essenziali di vuoto atomico adese alle pareti di metallo zigrinato: la sola illusione di certezza è di avere i piedi saldamente ancorati al suolo.
Secondo piano.
Una deprivazione sensoriale che potrebbe portarmi a breve su un selciato lastricato di allucinazioni: mi guardo ancora nello specchio salvo scomparire assieme al neon che si sta bruciando. Buio. Nessuna stimolazione che possa essermi di aiuto alcuno. Luce. La mia àncora di salvezza è una veste fatta apparentemente di disarmante e scintillante lucidità.
Terzo piano.
Se calassi lo sguardo sul mio décolleté potrei vedere il cuore battere. Le porte dell’ascensore si schiudono, scivolando una dentro l’altra, al pari di tendaggi di sipario. Cerco avidamente ossigeno che si infiltri nei polmoni e senza lacerazione restituisca nutrimento a sinapsi ferocemente affamate.
Alzo lo sguardo alla porta di fronte: seizerotre. Esco dall'ascensore.
Da dietro quella porta qualcosa prende la forma di una perseguibile scia olfattiva. Ha le note di Vertigo (Indoor). Ha il sapore del sangue pompato ad una velocità tale da fare girare la testa e perdere i sensi. Ha la forza di un urto di bile.
Tre passi su una moquette arancione a fiori blu: un corridoio lungo e stretto come un budello su cui si affacciano frammenti di esistenze umane. Ogni porta è una storia. Ogni porta è un mondo. Dietro ogni porta, un alibi.
Le mie nocche sulla soglia: dita adornate che scintillano nella luce fioca.
Ora sono qui.
Per l'ultima volta.